
CARLO MION: ANNI DA IPOVEDENTE, E POI... STORIA DI UNA NUOVA VITA
"Fingevo di aver fretta per non leggere gli orari dei treni. E i blocchi di appunti consumati per poche righe.... Poi il trapianto, una nuova vita di luce"
di Carlo Mion
Giornalista di cronaca nera e giudiziaria per 40 anni, professionista appassionato, per una vita Carlo Mion ha fatto i conti con l'essere ipovedente, con una diagnosi di Cheratocono all'epoca ancora poco conosciuta, che faceva fatica ad accettare. Poi la consapevolezza, la decisione, il trapianto di cornea.
Ipovedente. Quante volte ho cercato il significato di questo termine. L’ho cercato, l’ho letto e riletto. E poi evitato, scansato e rifiutato quando lo incrociavo in qualche testo o lo sentivo ripetere alla televisione o alla radio. Mi giravo dall’altra parte, fuggivo per non affrontare la realtà. Era solo scappare all’evidenza, alla mia disabilità. Sì, io sono stato un disabile visivo. E la vita da disabile é stata anche una preziosa fonte di ironia, di sensibilità e dell’arte dell’arrangiarsi che comunque mi hanno reso, alla fine, impermeabile agli atteggiamenti discriminatori.
"Famigerato cheratocono"
Il Carlo ipovedente “nasce” quando ad una visita per l’idoneità all’uso del videoterminale il medico del lavoro pronuncia il termine: cheratocono. Carlo prende paura e a dimostrazione della sua ignoranza chiede: ma é un cancro? E suscita l’ilarità del medico.
E poi Wikipedia, la Treccani e doctor Google, per capire che cavolo fosse questo famigerato c.h.e.r.a.t.o.c.o.n.o. Alla fine la stupida convinzione che non fosse una patologia, più di tanto, invalidante. É la presunzione dell’ignoranza che mi ha portato, senza accorgermene, nel mondo della disabilità visiva. Credo sia come per una qualsiasi dipendenza: rifiuti l’idea della tua “prigionia” convinto di uscirne quando vuoi, ma in realtà ci sei dentro fino al collo.
I mille escamotage da ipovedente, e quella volta che mi circondarono i militari...
La vita da ipovedente, abitante del mondo sfuocato e senza dettagli, é anche, per certi versi, divertente. Per non mostrare la mia disabilità, perché mi vergognavo, ho escogitato mille escamotage e ho vissuto situazioni grottesche che a ripensarci mi torna il sorriso. In verità era mentire a me stesso perché codardo non accettavo la realtà. Inutile fare finta, io non ero più uguale agli altri. E qui forse si trovano le radici del rifiuto: io non ero nato disabile, lo ero diventato. Non potevo più sciare o buttarmi giù lungo una discesa con la bicicletta o con una mountain bike in mezzo ad un bosco e questo dopo oltre quarant’anni di stabile normalità. Rido a ripensare a quella volta, in piena emergenza terrorismo da Isis, quando in una stazione ferroviaria mi misi a fotografare il menu, pubblicato sopra alle casse del McDonald’s. Lo facevo per poi zoomare la foto e leggere cosa c’era scritto. Dopo due minuti due, ero circondato da tre polferini e due militari. Mi venne in soccorso una ragazza che spiegò: anch’io lo faccio spesso, perché non ci vedo bene.
Stessa tecnica per leggere gli orari dei treni. Facevo finta di avere fretta e quindi “non potevo fermarmi a leggere i tabelloni” come tutti i normali viaggiatori e allora giù di foto con lo smartphone, e dopo lo zoommare. C’è poi il capitolo scale. Qui ho imparato ad essere un attore. Inevitabile, quando le scendevo, dover “sentire” sotto al piede lo scalino, soprattutto se non c’era la striscia antiscivolo ad alta visibilità che ne individuava il bordo. Nei luoghi pubblici allora scattava la finta telefonata per scendere lentamente e mascherare la ricerca dei singoli gradini, della loro dimensione, con le punte dei piedi.
Giornalista per 40 anni, tra ironia e difficoltà
Il capitolo lavoro è ricco di mille situazioni, la gran parte divertenti, altre tristi. Quando parlo di lavoro mi riferisco all’intero universo di rapporti intrecciati durante i quasi quarant’anni del mestiere di giornalista. Il fattore umano é, inevitabile, quello che più mi ha segnato. Nel bene, ma pure nel male. Ci sono una manciata di colleghe/i che porto nel cuore. E lo farò sempre. Per la loro delicatezza nell’essermi d’aiuto senza fare alcun accenno alla disabilità visiva che era evidente. Per altri, per coloro che alle spalle magari ironizzavano e spesso concludevano la frase dicendo “tanto Mion non vede un c….”, o che magari mi imitavano quando guardavo lo schermo del telefonino da vicino, non provo alcun sentimento. Solo indifferenza. Non riesco ancora a giudicare la loro mancanza di sensibilità. Per fortuna negli anni della disabilità ho imparato, infatti, ad andare oltre.
Al ristorante: "Speriamo lei ordini una lattina..."
Nell’era della tecnologia digitale, il capitolo siti Internet e programmi web mi fa ancora arrabbiare per il fatto che, nonostante ci sia una legge che stabilisce come deve essere garantita l’accessibilità alla rete anche a chi ha problemi di vista, non sono poche le amministrazioni pubbliche che non rispettano le regole. E al tempo della disabilità allora andavo di screenshot con l’iPhone e poi di zoom in galleria immagini. Ed è evidente la perdita di tempo, lo stress che accumulavo e la stanchezza a cui sottoponevo il cervello.
Ora, quando rivedo i quaderni degli appunti, penso che un ubriaco consumi meno pagine per delle note che valgono al massimo cinque righe. Praticamente non riuscivo più a scrivere con la penna. E quando rileggevo gli appunti non capivo cosa avevo scritto. A tavola quando versavo l’acqua in un bicchiere lo avvicinavo talmente tanto alla bottiglia che sembrava dovessi centellinare un prezioso liquido. Lo tenevo pure fermo con una mano. Senza contare certe situazioni imbarazzanti, come le uscite a cena con una donna e farsi versare la bevanda da lei che doveva pure servirsi. Speravo sempre che ordinasse una lattina.
Basta ad un mondo sfuocato. L'arrivo del trapianto
Finalmente arriva il momento di dire basta al mondo sfuocato. Coincide con la stanchezza di fare il più bel mestiere del mondo. Quel mestiere che il timore di perderlo mi ha fatto rifiutare la mia condizione di disabile. Per tanti motivi non avevo più l’entusiasmo e gli stimoli che mi avevano consentito di superare mille difficoltà e di esserci sempre.
Basta, non potevo più rifiutare quello che ero diventato. E quindi, grazie ad Alessandra una collega, l’incontro a Padova con l’equipe del dottor Alessandro Galan. Durante la prima visita Galan non usa mezzi termini: “Se fossi in lei chiederei l’accompagnatoria”. Se avevo ancora qualche dubbio, me lo fece passare. Quindi il trapianto di cornea. Sette ore in day hospital e poi a casa.
Il resto è storia recente. La storia di una nuova vita. Storia di luce. Ho ancora bene impressa nella memoria la prima immagine che il mio cervello registra ed elabora quando tolgo la benda, come mi era stato detto di fare. Era una mattina di ottobre e c’era il sole. Ero in cucina. Una luce bianca e forte, ridisegna i particolari di vecchie immagini immagazzinate nella mente. Il cervello si prende del tempo prima di riabituarsi ad una nuova definizione di quello che mi circonda. Pensai: manco lui crede a questa rinascita. È invece naturale questo lento adeguarsi alle nuove condizioni. E alla fine si è riabituato. E bene. Sono tornato in sella ad una bicicletta. A rifare le discese lungo le strade dei Berici e delle colline di Marostica. Lo sci no. Ma questo dipende da una ritrovata sensibilità ambientalista.
La nuova dimensione delle immagini c’è stata per merito di chi lavora ed è impegnato nella ricerca perché questi interventi e la donazione di organi diventino “semplice” quotidianità.